giovedì 27 gennaio 2011

Ricordi In Rima

Un giorno mi ritrovai ad un lavoro,

salario garantito, un pò di decoro.

Lo lessi per sbaglio

E pensai ad un abbaglio.

Recarsi al colloquio sempre dritto

E io andai lì lindo e pinto!

Buongiorno buonasera, che cortese!

Un giovane valente di codesto paese..

Cosa cerca signor giovane disoccupato?

Un qualcosa per tenermi occupato.

Salario garantito e pensione da impiegato

Insomma, a bassa voce, vorrei essere pagato!

E così viene lei, senza avviso e coscienza!

Dove la trova lei tanta insolenza!

Il curriculum è questo,

sì un pò modesto,

ma sono giovane e ho studiato,

forse per questo proporrei di essere pagato!

E crede in questo modo di essere giustificato!

Cosa crede che io non ho studiato?

Mio padre, il direttore, mi ha dato la paghetta,

4 mila euro al giorno per darle retta!

E adesso secondo lei già messo a posto...

Lavoro e salario insieme senza sosta...

E lo stage? E la gavetta?

Per lei almeno 6 mesi senza fretta!

Mi dica lei dove andare...

Io vengo qui per lavorare.

Vada in fondo a quella porta...

Lì troverà presto una risposta!

Mo non so se lui mi ha voluto consigliare...

Se da qualche parte io dovevo andare...

Ma poi chiedendo gentilmente è permesso!

Invece di un lavoro ho trovato un cesso!

In macchina...

In ascensore...

Mo Affittamo, anteprima: purtroppo Marco Cischelli!

In condominio...

Al bagno...

martedì 11 gennaio 2011

Francesco


Tarcisio


Giampiero


E Mo Cominciamo...un'Attimo...

Francesco Sardelli. Matera. Ventun’anni. Residente in nessun luogo. Sito in Roma.
Faccio parte di un losco clan: un gruppo di ragazzi uscito dalle superiori con un obiettivo non molto chiaro in testa, che parte da un posto privo di denaro e speranze alla ricerca di gloria.
Campani, calabresi, lucani, pugliesi, sardi, siciliani, umbri, abruzzesi: all’attacco!
Questo losco clan è molto conosciuto, quasi tutti gli uomini famosi, dai principi ai politici, ne parlano: discutono tra loro, analizzano il problema e poi tra mille dubbi, rebus, con taccuini pieni di foto e statistiche, stanchi si prendono un caffè.
Prepariamo questa partenza da anni: ci immaginiamo folle di persone in lacrime, fazzoletti bianchi svolazzanti, il sindaco del paese che mette una targa con il tuo nome.
“Francesco Sardelli è nato qui!”
Avvisi tutti: “parto tra quattro anni per Roma! Ragazzi parto anche per voi! Basta stare qui a discutere del nulla! Basta fermarsi qui, in questa terra assolata e arida. Cosa ci hanno costruito i nostri padri. E i nostri nonni? E ancora a mettere radici! Noi siamo uomini del mondo. Dovremmo correre con un filo di grano tra i capelli e tanti sogni nella valigia. No! Non m’interrompere! E sta cassa del Mezzogiorno? Io non l’ho mai vista! Qua solo piccioni e cani rachitici. E siamo fermi in questo posto senza speranze e ragioni. Sveglia!!!”
Purtroppo gli occhi dei miei coetanei erano fermi a guardare figure stampate nei primi dell’Ottocento, stampe sorridenti in fumosi bar assolati. Tavolate rotonde di giovani con gli occhi fissi e in attesa di non so cosa!
Il più lucido del gruppo solleva gli occhi e con un po’ di astio nei miei confronti, colpito dalle mie furenti parole, esprime un concetto chiaro e violento: “Francè, ma ce l’hai o no sta briscola?”
I giorni si rincorrevano furenti, con poche emozioni e nessuna sveltina.
Fino al giorno della partenza: presi la mia borsa piena di speranze e vuota di vestiti, con un salame attaccato al collo, un formaggio avvitato al dito medio, il portafoglio riversato in una busta di plastica contenente ben quattrocentocinquanta euro tutti in tagli da venti e cinquanta centesimi. E una gallina inferocita per il guinzaglio troppo stretto. E per le perline attaccate al guinzaglio su cui erano stagliate il suo nome (Gisella) e il suo gruppo sanguigno.
Da persone intelligenti quali siamo, e soprattutto furbi, la partenza è alle cinque e trenta della mattina, per evitare traffico e Testimoni di Genova (provenienti da Genova e anche molto tirchi nel bussare al campanello). Viaggio silenzioso, mio padre borbotta bestemmie per non aver messo mai mano in fabbrica e continuato la lunga stirpe di dipendenti sfruttati; mia madre in lacrime guarda il finestrino e ricorda tutta la mia infanzia, in silenzio, quando ero piccolo, brutto e orgogliosamente stupido. “Qui ti sei fatto bocciare!” mia madre in lacrime. “Maledetto bastardo!” borbottava mio padre.
Prima della stazione una lunga fila di macchine: sì, perché noi di Matera siamo riconosciuti come una città di persone intelligenti, ma soprattutto furbe!
La fila terminava verso le 8, finestrini sigillati per via di un presunto torcicollo di mia madre guadagnato dopo il lancio della padella dietro le mie spalle, specialità in cui era atleta riconosciuta in tutta la Regione. Dopo aver perso dieci chili e squagliato il formaggio sul dito trasformatosi in collante per il mio pantalone, mio padre, in ritardo per il suo turno al bar per il primo spumantino della giornata, mi scaccia dalla macchina come fossi un tappo del suo vinello preferito, con un calcione assestato bene e tirandomi dietro le bestemmie più ignominiose. Mia madre con un ultimo gemito diceva: “Non farti vedere più!” e indossò la collana di perline di Gisella. Gisella era cullata dal mio abbraccio focoso e mi avvicinai al treno camminando come un cyborg, perché ormai il formaggio aveva fatto uno strano effetto sulla parte destra del mio corpo.
Il treno? Neanche a dirlo: il Regionale. Il Regionale anche alle quattro di mattina è strapieno: i viaggiatori in piedi vengono catapultati fuori dai finestrini ad ogni fermata;
i viaggiatori seduti viaggiano per almeno una ventina di anni, prima di essere scoperti cadaveri da un becchino cieco che passa ogni venti anni con un avvoltoio laureato a fare un controllo sul treno.
Il controllore è uno sconosciuto: ad ogni domanda “Biglietti?”, la risposta è, sempre al tuo vicino prossimo, “Ma chi è questo?”. Se il controllore desiste, l’atmosfera resta tranquilla e afosa, per un ovvia mancanza di aria condizionata dovuta ad un sistema di contatti elettrici, per cui quando c’è la luce elettrica non parte l’aria condizionata, e viceversa. Purtroppo per una richiesta dei viaggiatori miopi e di quelli morti il cui odore fermenta giorno dopo giorno, la luce elettrica deve essere sempre accesa anche il quindici d’agosto, seguendo il famoso motto: “Meglio puzzolenti che ignoranti!”
Se il controllore continua nel suo mestiere e chiede con più forza “Biglietti?”, l’aria si fa più tersa e desertica e il suddetto, sprovvisto di biglietto, si alza e, fissandolo negli occhi, esclama: “Che è tutta questa confidenza!”. Difficilmente la rissa dura più di due ore e, dato che il viaggio ha una durata media di due giorni, il controllore offre un caffè a tutti quelli sprovvisti di biglietti, ricevendo da ognuno scuse reverenziali e restituendogli almeno i documenti per essere riconosciuto, ormai sfregiato, dai suoi familiari. Ogni due ore entrano di corsa reduci nazisti, che dandosi pacche sulle spalle, innaffiano con idranti a lunghissima gettata tutti viaggiatori. Coloro che non corrono verso i finestrini impauriti vuol dire che sono viaggiatori di lunga data. In questo modo si riduce il lavoro del becchino cieco che rischia la vita ogni due anni per non andare a finire sui binari per via dell’umorismo un po’ nero del suo avvoltoio laureato. Il viaggio fu divertente, ho conosciuto tanti persone dirette verso il nord, il nord nord, e il Polo Nord: verso quest’ultima meta dei piccoli eschimesi traditi dai loro cani che vogliosi di farsi un bagno come si deve sono andati in villeggiatura a Diamante.
Un viaggio di formazione. Arrivato a Roma, ho conosciuto tante brave persone, che mi hanno derubato della mia busta piena di monetine presa in dote da un bambino dalle braccia muscolose, definitosi piccolo barbone da strada e indossatore ufficiale di Tod’s;
la mia Gisella si è impiccata con il salame, depressa e sfinita dal viaggio, e da un suo simile dal fiato maleodorante, fumatore incallito e dal suo padrone morto per asfissia.
Sono rimasto fermo, immobile a pregustarmi questo inizio: l’inizio della “Vita confusa di un disoccupato inutile”.